Paura, potere e populismi

Il clima di incertezza stravolge il modo di concepire, e formare, la classe politica. Il leader che vuole diffondere sicurezza deve ostentare il proprio successo personale, per cui parla e straparla con creatività e inventiva.
Il fatto che spesso questi leader carismatici risultino ignoranti di politica, non conoscano il “politicamente corretto”, facciano continue gaffe, ignorino i meccanismi istituzionali non è per loro uno svantaggio, ma un punto di forza. In questo modo, infatti, dichiarano la loro prossimità con l’uomo qualunque e, siccome l’uomo qualunque è insicuro, e la persona insicura predilige l’uscita dallo stallo determinato dalla complessità politica, il gioco è fatto.

Più sono trasandati nel loro linguaggio culturale, più si mostrano alieni alle regole istituzionali, più esibiscono deficit nelle competenze politiche, più guadagnano voti. Matematico e drammatico, allo stesso tempo.

Negli anni cupi della Guerra fredda ci sentivamo tutti sull’orlo del precipizio. In quella posizione difficile era necessario mantenere l’equilibrio. La principale paura era che un pazzo salito al potere potesse premere un bottone sbagliato e scatenare l’inferno nucleare. Per questo la classe politica era perlopiù composta di persone compassate, le quali dovevano infondere sicurezza con un portamento e una loquacità ridotti al minimo sindacale. Dovevano essere figure sobrie, pacate, riservate, attente all’uso di ogni singolo concetto, di ogni avverbio e proposizione, di qualsiasi virgola. Ci voleva un sacco di tempo per intervistare uno di questi politici, tanto lenti erano alla risposta ed estremamente prudenti nel consegnare all’opinione pubblica le strategie del proprio partito politico.

Mi sembra poi quanto mai inadeguato l’atteggiamento strisciante che ogni tanto affiora nel dibattito politico odierno, animato dai populismi, secondo cui c’è sempre qualche cospiratore che trama nel buio e impone le sue oscure decisioni, asservite solo ai grandi interessi di poche lobby economiche o finanziarie. È un modo per tirarsi indietro nella lotta, perché, qualora esistesse tale grande burattinaio, è chiaro che ciascuno di noi avrebbe poche chances di sovvertire le cose.

Chi sostiene la tesi della cospirazione, difatti, vuole mostrare l’ingenuità degli altri, considerandoli non in grado di capire come va veramente il mondo, e al tempo stesso rivendica per sé il ruolo di sopravvissuto alla narcosi collettiva, l’unico rimasto con gli occhi aperti, vigile e cosciente, in mezzo a una massa di illusi. Le élite esistono, altroché, ma, come rilevato più volte dagli studi politologici dell’ultimo secolo, sono tante, nemiche fra di loro, escono ed entrano dalla scena politica, a volte vincono e a volte perdono. Si tratta di stanarle, di concorrere con loro, in modo trasparente, per riuscire a seminare i princìpi e i valori positivi a cui crediamo, attraverso la diffusione di buone pratiche e di un solido pensiero. La partita non è affatto persa.
da un articolo di Alberto Lopresti (docente di Teoria Politica presso l’Istituto Universitario Sophia di Incisa Valdarno